Un saluto in un racconto

08.04.2015 11:14

 

Abbiamo trascorso insieme una bella settimana di Pasqua, impegnati come sempre ad organizzare questo o quell’evento, a preoccuparci di trovare una campagna per Pasquetta o un diversivo per le nostre serate.
Nel frattempo Vox Populi, senza accorgersene e silenziosamente, perdeva il contributo di una delle persone che sin dalla nascita del blog hanno saputo cogliere lo spirito di questo gruppo, partecipando attivamente alla concreta realizzazione di post ed articoli.

 

Venerdì mattina ci ha regalato il suo ultimo contributo: ci ha contattato dicendoci che voleva condividere con noi una storiella, nu "fattaridd", e per dovere di cronaca volevamo riproporvela per intero, senza tagli e con la foto che lui aveva scelto per raccontarvi quello che aveva vissuto.

Fermatevi 10 minuti e rifletteteci sù.

Ciao Rocco, grazie per aver contribuito a non farci mollare mai.
Fai buon viaggio.

 

                                                            "Nù fattarìdd"

                   

BUONA PASQUA A TUTTI
Cari amici grassanesi, in paese o lontani, vi voglio raccontare una piccola storia, nù fattarìdd, che sia di buon augurio per tutti.
Anche se non calpestavate lo stesso acciottolato dù Puzz i Vìgn, che voi foste stati N’cap a Grott, nnànt a Madònn, a Pntòn, n’dù Chiàn Fafàl o N’càp a Serr, sono sicuro che i vostri piedi scalzi avevano i miei stessi calli.
Condivido questa storia con voi perché “i fattarìdd” non sono di chi li racconta ma appartengono a tutti, perché coloro che si fanno interpreti dei sentimenti collettivi, che narrano o mettono in versi le storie, le prendono solo in prestito dalla gente, e a quelli, in punta di piedi, devono restituirle caricandole di emozioni. Se poi la condivisione è fatta con l'amore per chi gli ha concesso questa opportunità, questo privilegio, ecco, è solo allora che il narratore ha centrato il suo obbiettivo....
L'eccesso di immagini è la cifra del tempo che viviamo .
Siamo letteralmente bombardati dalla televisione, da internet dal web e dagli smartphone. Questi, più che strumenti di informazione-comunicazione, sono diventati oramai i veri e propri simboli totemici di questa strana epoca. Sembra che abbiano un potere ancestrale:”L’ha detto la televisione; l’ho letto in internet; è stato postato su Facebook”. In tutto ciò che inseguiamo c’è una tale ridondanza, da condizionarci il corso della vita. Mai l’umanità ha avuto davanti agli occhi una tale quantità di “fatti” e immagini, così veloci da non permetterci di tracciare un percorso, con il rischio di scordarci da dove veniamo.
Per questo motivo abbiamo bisogno di rallentare la deriva della nostra coscienza, di ritrovare il “Tempo ”, di rimettere al centro il pensiero. Dobbiamo necessariamente fermarci, riscattare pezzi di vissuto collettivo, recuperare le voci che ci giungono da lontano, insieme alla gente con le loro gioie e dolori, insieme alla poetica dei luoghi. Dobbiamo “darci” una possibilità di ricostruire una Memoria Condivisa.
Quella che segue è solo un piccolo solco, aperto su quel terreno.
E’ una piccola storia,ci appartiene.
Ebbene lo confesso, ho una relazione intima con la Memoria, quest’oggetto misterioso. Ammasso di proteine accumulate nelle cellule cerebrali la definirebbe lo studioso di biologia o insieme di dati archiviati nel dispositivo cerebrale, come direbbe l’informatico. Per me invece è uno scrigno prezioso, qualcosa da custodire gelosamente.
Integro.
La Memoria è come un labirinto sotterraneo, il “labor intus” dove, riponendo ricordi ed emozioni che mi hanno investito nel corso del tempo, accantono la mia riserva spirituale.
La sfida è nei suoi dedali, è lì dove tutto si ricolloca.
In quel territorio, l’esistenza assume un senso compiuto.
Quel luogo bisogna attraversarlo scegliendo il percorso adeguato, facendosi guidare da vibrazioni interiori.
Le nebbie che inevitabilmente calano sui ricordi potrebbero smarrirmi la strada, impedendomi di raggiungerne il centro, quello spazio dove godere una ritrovata unità con me stesso.
Svoltando un angolo, inavvertitamente potrei incappare in sensazioni già provate o in una persona conosciuta, ovvero in sapori e colori, in parole dimenticate e paesaggi, strade, case e paesi attraversati.
Alle orecchie giungermi musiche o storie ascoltate chissà quando.
Ritrovarmi in una biblioteca con tanti libri, molti dei quali coperti dalla polvere del tempo, tanta da non riuscire più a leggerne i titoli.
Chissà in quale parte del percorso mi hanno tenuto compagnia…...
Imbattendomi in un ricordo sono colto dalla smania di acchiapparlo e osservarlo, ponendolo alla giusta distanza per coglierne la luce che sprigionava il suo vissuto.
E poi trascriverlo!
Cercando le giuste parole per rievocarlo, tratteggiandone i contorni per goderne in pieno l’emozione della riscoperta, cancellando dai visi il tempo del loro vissuto, richiamando i nomi rimossi,i luoghi con le loro fragranze…
Per celebrare l’attimo, anche se immobile, ho la sensazione di essere sospeso.
Solo la mente attraversa il sogno.
Eccolo! Il viso di un ragazzino.
La pelle cotta dall’inclemente sole agostano, i capelli neri fitti tagliati a spazzola, alla Umbèrt (Umberto I di Savoia) li avrebbe chiamati Giacinto, il barbiere di famiglia.
Lo osservo correre con gli amici di sempre, scalzo nel tardo pomeriggio, sull’acciottolato dalle pietre roventi.
Sono loro, i ”tre ninnì”, padroni dù puzz i vìgn, inseparabili.
Rocchìn ù braslès, Pròspr margarìt, Pròspr a r’ggìn.
Riparata dalla tenue ombra dell'uscio di casa, cumma Catarìn r’cchiòn.
Una vecchietta esile, arrivata direttamente da un passato scomparso per sempre, china nel suo abito nero testimone di chissà quali lutti lontani.
E’ intenta in un lavoro automatico, da sempre eseguito, anno dopo anno.
Solo le mani impegnate, la mente libera di occuparsi d’altro.
Li chiama per dar loro i suoi piccoli preziosi doni: ”na fìch s’ccàt chi mènnl, nù mscùttl cù cùtt, na pastsècc, na frsèll”.
Smette per un attimo di tirar fuori dalle mandorle sgusciate il loro frutto, a mènnl, che farà da companatico al fico.
I fichi secchi, leccornie che si preparavano in tutte le famiglie, manicaretti che facevano compagnia nelle lunghe serate d’inverno, rallegravano un ospite, magari accompagnandole ad un bicchierino di rosolio.
La loro preparazione, un rito accurato che richiedeva tanta cura e pazienza.
I fichi stesi con la pancia al sole ad abbronzarsi,dovevano perdere lentamente i loro liquidi,non seccarsi per non indurirsi.Quelle grasse infruttescenze carnose,insaporite dall’estate grassanese,si sarebbero trasformate in deliziosi bocconcini, aromatizzati da semi di finocchio selvatico,cannella e buccia di limone.Il loro cuore tenero,appena ubriacato di sambuca,reso croccante dalle mandorle e sublimato da una leggera tostatura in forno.
Sui balconi,sui terrazzini,nelle stradine, “cannìzz e tavlìr” erano lì,pieni con le loro succulenze.
Irresistibili tentazioni per vespe e bambini!
Cumma Catarìn r’cchiòn, insieme ai tesori tirati fuori dalla dispensa,regala ai ragazzini le sue storie, ” i fattarìdd” come venivano chiamati,costruzione di sapienza popolare, tramandati attraverso la scuola delle lunghe sere attorno a bracieri e focolari o del tempo infinito dei vichi.
Espressione orale attraverso la quale da centinaia e centinaia di anni,per generazione e generazione, venivano trasferiti i saperi e le conoscenze dei poveri.
Lei,figlia di un'epoca dove scrittura e lettura erano appannaggio di pochi,raccontava storie di vissuto contadino.
Gli anziani erano i depositari di una straordinaria cultura materiale,legata al cibo, al lavoro,alle stagioni,alle cure con le erbe, nonchè filosofica,di quell’umanità ristretta in un mondo delimitato da due fiumi,l’Aimàr da una parte,ù Vràdn dall’altra con a lato ù Vliùs.
Le storie narravano di amori appassionati o negati, del lavoro nei campi legati allo scorrere del tempo e delle stagioni,della fatica e dei magri raccolti da dividere col padrone,delle tragedie dei diseredati ,di poveri pastori che tornavano a casa da moglie e figli per la “quindicina” o di quelli che lo facevano solo per il giovedì Santo e la vigilia di Natale.
La narrazione includeva la condizione dei salariati,le sopraffazioni subite dai proprietari terrieri o dai loro lacchè “massari”,delle lotte dei braccianti,le sofferenze per emigrazioni d’altri tempi, di ragazze che subivano abusi e ingiustizie, di bambini abbandonati,di vissuti sfortunati, delle lotte tra briganti e piemontesi,oppure di strani esseri o animali notturni regolatori di conti in sospeso.
Oltre alle storie si cantava.
Dappertutto si potevano udire dei voci,lo facevano mamme o nonne mentre sbrigavano i lavori, la mattina andando in campagna,zappando la terra, mietendo il grano o raccogliendo uva o olive.
Bisognava fermarsi ed ascoltare quelle melodie ammalianti.
Monovocali o polivocali,anche se semplici, erano di una raffinatezza indescrivibile.
Che fossero racconti o canti,svolgevano un importante ruolo di aggregazione,erano parte integrante della vita di quella comunità contadina che andava scomparendo per sempre.
Cumma Catarìn r’cchion, inchioda i ninnì lì,ad ascoltarla.
Narra loro la storia di uno spiritello,uno strano folletto chiamato 'u munachìcchje.
Un esserino di piccola statura, deforme,con testa grande e corpo esile,dall'età indefinita che indossa il saio dei trovatelli che, curiosamente, può assumere colori cangianti:rosso se deve portare fortuna, nero se foriero di sventura.
”Mbà Rocchì,Prosperì!”, la raccomandazione di cumma Catarìn,”non fate arrabbiare le vostre mamme,aiutatele nei lavori ,andare in campagna,non disubbidite al maestro a scuola,altrimenti viene ‘u munachìcchje!”.
”Quel brigante,permaloso e dispettoso qual'è,se si arrabbia può mettervi sotto sopra la casa,e se poi decide di accasarsi da voi,non riescireste più a liberarvene”.
“Quello spiritello testone,può rompere o far sparire oggetti,nasconderli per la disperazione delle nonne, può portare sogni cattivi e tirarvi i piedi mentre dormite”.
“A volte, per dispetto può ingravidare le ragazze!
Se invece siete bravi e buoni,'u munachìcchje vi ricompenserà facendovi trovare giochini o monetine,nei luoghi più impensati.
E se qualcuno vi chiedesse:ma chi è stato,sappiate che :a stàt 'u munachìcchje,pcchè ìdd, a c' arrcchìsc e c' appzzntìsc” .
Questo ’u fattarìdd narrato ai ninnì.
Quell’anima in pena e sofferente nel suo piccolo corpicino,quell’esserino senza neanche il piacere di un vero compagno di giochi o di una dimora fissa,era però capace di piangere e far piangere,di sorridere e far sorridere,di tormentare o consolare.
La morale della favola era che nella vita non tutti sarebbero vissuti per sempre felici e contenti, che la pazienza e il rispetto verso gli altri come per i propri genitori e gli anziani, il bene verso i più deboli, sono delle virtù da coltivare.Che il sostenere con coraggio le proprie azioni,coltivare il senso della giustizia contro le prepotenze,l’insegnamento della storia.
Per contrappasso ci sono pene,ovvero delle punizioni adeguate ad una condotta di vita impropria.
Quando mi fermo a considerare su cosa è stata la mia infanzia fino all’adolescenza,non la penso con un trasporto nostalgico.
Credo che coloro che considerano il passato come lo stato dell’età felice,abusano un luogo comune.
So bene che i fatti della vita non sono una raccolta di favole o eventi da mitizzare so però,che non possiamo vivere coscientemente il nostro presente né preparare consapevolmente il nostro futuro se non coltiviamo la Memoria di ciò che è stato e la conoscenza delle nostre origini, passa anche attraverso la narrazione de i fattarìdd.
Avere e/o recuperare la Memoria,serve per richiamare alla mente,per non dimenticarli le tante cumma Catarìn e mbà Francìsc r’cchiòn,mbà Mingh e cumma Tarès,Crstìn a sagrstàn e Dunat, Catarìn e Manuèl ù braslès,cumma Marìj a cractan e mbà Nùcenz, ,mèst Pitr ù putunzès e Angiulìn fascnèdd,Lucìj a caucianès e Vttorj,cumma Margarìt e mbà Gsèpp, Giacumìn e Arbtèdd,mbà Tumas e cumma Màtalèn,Lnàrdùzz e Margarìt, Nùcenz a Rggìn e a mgghièr e tutt e quattodc o quinc’ fìgghj,cumma Marìj pacculedd e mbà Pepp,Marìj Mlàn e Mariùlicchj,mbà Cìcc strttòn e Tarès,Annarell e i suoi uomini e poi Ncòl Sepp àccìs,a ll’ffantìn,Scègn ,Amìdd,Rcàngl,cumma Nàrd e mbà Francìsc prchìn ,Agnès a Bianc,Scalon,Papracìann,mbà Cicc Montan,a Tavanedd,Putruzzèdd ca scèrn a l’amèrc e tanti,tantissimi altri che hanno attraversato la prima parte della mia vita.
Ecco cos’è anche la Memoria, un pretesto che mi permette,attraverso l’evocazione di un viso o una voce,di non dimenticare, rischiando di farli scomparire per sempre, fatti e storie di vissuti i quali trovavano la giusta comunione con usi,tradizioni e costumi che hanno forgiato la mia identità.
Una parte di quel mondo,anche se in forma molecolare, continua a vivere in me.
Le storie costodite gelosamente nel labirinto,sono un ponte tra le persone che sono state e coloro che verranno,stanno lì a ricordarmi che il passato non è un’illusione passeggera.
Rocco Luberto