Vecchie Glorie

06.11.2014 19:37

        

                 LA MITICA EPOPEA DELLA POLISPORTIVA GRASSANO

                                             

(In foto: sopra Siggillino,Torres,D'Agnone,Carbone,Soranno,Sanseverino. In basso sempre da sinistra Viscera,Debellis,Luberto,Monte,Distefano)

C’è stata un’epoca lontana in cui, bambino, ho scoperto il pallone. Non è accaduto per televisione, o negli album delle figurine, che pure la loro bella parte di colpa ce l’hanno avuta. È successo su campi di terra battuta poco e male, disseminati di buche traditrici, gonfi di pozzanghere d’inverno, forieri di nuvole di polvere d’estate.
Il pallone l’ho scoperto grazie alla polisportiva Grassano, dignitosa ed anonima interprete del campionato di prima categoria lucana, quando il football di provincia era una cosa seria assai, perché là, lontano dalle metropoli, quando le peiperviù non si immaginava manco lontanamente cosa potessero essere, non esisteva altra maniera per appassionarsi al calcio.
Lo si faceva in piedi, tra le sbarre arrugginite di un’inferriata traballante, il più delle volte schiaffeggiati dal vento gelido dell’inverno, che nell’intervallo tra il primo ed il secondo tempo costringeva a correre nel bar più vicino affinché un caffè od un cognac scaldasse lo stomaco e la camminata levasse il formicolio dai piedi. Talvolta pure sotto l’acqua, raccolti in tre o quattro sotto un ombrello, mentre in campo ventidue matti saltavano nel fango dietro al pallone. Nelle domeniche più fortunate, di inizio e fine campionato, ci si godeva il sole tiepido di settembre o l’aria fresca di aprile premonitrice d’estate.
In quelle giornate, al costo esorbitante di tremila lirazze, che i dritti si sparagnavano affacciandosi alle finestre della canonica della chiesa o scavalcando il cancello della scuola elementare, si viveva dell’epica di un calcio straccione, consumato tra il sugo della braciola e la camminata domenicale per il corso. Quella camminata in cui gli eroi del pallone avrebbero sfilato a petto in fuori in caso di vittoria, o con le orecchie basse se la giornata era stata infausta.
In quelle domeniche meravigliose e lontanissime io, bimbo fortunato, perché figlio del presidente di quella squadra, potei familiarizzare con quel mondo eroico e mitologico, povero ed esaltante, stupido ma divertente.
Perciò qui vi canterò, in assenza del campionato tecnico moderno e televisivo dei giorni nostri, degli eroi di quell’epica lontana, per restituire alle loro gesta quell’alone di nostalgia che nel mio ricordo di pischello ingenuo e sognatore conservano tutt’oggi.

(in foto Pierino Monte e Antonio Distefano)

Vi narrerò di Pierino Monte, stopper muratore e showman da spogliatoio, che il meglio di sé stesso lo offriva prima e dopo la partita, con il racconto tragicomico delle proprie gesta dentro e fuori dal campo. Parlava dialetto quand’era serio, italiano con accento milanese quando invece voleva cazzeggiare, facendo la parte dell’emigrante al nord che lassù, nella metropoli ricca e tentatrice, ne aveva viste proprio tante. Il suo problema più grosso era che si giocava la domenica pomeriggio, e lui quasi mai aveva digerito la pastalforno di mammà. Lo provarono terzino, lui fece capire chiaramente che là proprio non era cosa, gli avversari arrivavano troppo veloci, e lui non ce la faceva manco a buttarli a terra. Meglio al centro, dove spesso capitavano centrattacchi ultratrentenni, grassi e immobili, alle cui maglie era più facile appendersi, o giovincelli appena maggiorenni, con i quali la promessa di sane legnate nei garretti sortiva esiti ben più efficaci di recuperi e coperture.
Giocò poco, Pierino. La capa era quella che era, come molti si ritrovò ex a venticinque anni. I risultati non cambiarono granchè, ma nello spogliatoio si rise molto meno.
Per fortuna ad accendere la fantasia di noi bambini e dei tecnici sopraffini che popolavano le tribune inestitenti del campo sportivo grassanese (i quali, le proprie considerazioni sulla partita, anziché articolarle fine gara, preferivano urlare in presa diretta ai protagonisti, arbitri in particolare), ad accendere la fantasia dicevo, ci pensava Tonino Di Stefano, mai cognome fu più profetico. Mezz’ala dalla tecnica squisita, in gioventù munito di ricca chioma riccioluta stile primo Maradona. Esile di fisico, ma dotato di piedi da favola e intelligenza calcistica fuori dal comune, giocava centrocampista, come all’epoca facevano tutti i numeri dieci, rigorosamente marcati dai numeri quattro avversari. In quel calcio poteva andare dove voleva, l’importante era che giocasse come sapeva. Mi ricordo un suo gol all’Irsina, la partita finì uno a uno e lui, quand’eravamo sotto di una rete in casa, in una partita che storicamente era un derby, si inventò doppio dribbling al limite area e sventola dritto nel sette con portiere immobile. Sublime.
Avrebbe meritato altre platee ed altri obiettivi, Tonino, ma soldi per il calcio a Grassano non ce ne sono mai stati, e allora ci si è sempre dovuti accontentare di vivacchiare in acque tranquille di classifica medio-bassa. Di forestieri manco l’ombra, o quasi. Quelli volevano i soldi per la trasferta, la benzina, e tanti ammennicoli che la società non poteva permettersi, anche perché, se li avesse concessi, avrebbero cominciato a storcere il naso i locali.
Ne vennero pochissimi, di forestieri. Di quei pochi tre vanno ricordati. Giuliano Gallitelli era un centravanti guizzante che segnò una quindicina di gol e ci permise di toglierci belle soddisfazioni, come una vittoria uno a zero con gol suo, in casa contro il Maratea capolista, che quell’anno avrebbe vinto trionfalmente il campionato.
Rocco D’Agnone, nemico giurato perché tricaricese, e quindi appartenente al paese avverso per antonomasia, venne a giocare il suo campionato migliore proprio a Grassano, per rivalsa contro la sua gente, che quell’anno lo aveva messo fuori per invidia o perché invaghitasi di qualcuno più giovane di lui. Venne quasi per caso, per il rispetto verso mio padre, suo ex professore di ragioneria. Segnò venticinque gol, un’enormità. Credo che nessuno abbia mai fatto altrettanto nella storia del Grassano. Era un professionista del mestiere, D’Agnone. Tozzo, inquartato, difendeva il pallone come nessuno, conosceva a memoria tutti i trucchi del mestiere, e li usava sempre tutti. Fece gol in tutti i modi, di capa, di piede, punizione, rigore o azione. I tricaricesi furono costretti a riprenderselo di corsa. E l’anno dopo, ahinoi, vinsero il campionato in carrozza.
L’ultimo fu Rocco D’Angelo, altamurano, mezza punta dal piede di velluto e dalla capa troppo calda. Giocò partite deliziose e altre irritanti. Molto spesso scomparve nel nulla, ma in quei campionati ci stava pure questo.
Chi di sicuro non è mai scomparso è Angelo Gazza Gramegna, Del Piero ante – litteram, centrocampista generosissimo, che per questa sua attitudine al sacrificio si è trovato incasellato nel ruolo scomodo del mediano dai piedi buoni, che però doveva farsi un mazzo così a rincorrere le mezzepunte avversarie. Non posso dimenticare un derby col Tricarico, in casa. Vincemmo uno a zero, il gol lo segnò Angelo di testa, lui che arriverà sì e no al metro e settanta. La partita cominciava alle due e mezza, lui era al campo all’una. In quell’ora e mezza, secondo il suo stesso racconto, fumò un pacco e mezzo di sigarette. Alla fine venne la gara. Segnò, giocò splendidamente, e credo gli ci vollero molte notti per riuscire a prendere sonno. Oggi Angelo ha 46 anni e già da troppi non gioca. Peccato, avrebbe ancora un sacco di cose da insegnare a quelli che si illudono di sapere cos’è il pallone.


Ne avrebbe pure il mio amico Giovanni Carbone, non un portiere, ma un monumento al calcio di Grassano, che come tutti i monumenti ha dovuto vivere il triste destino di essere offeso ingiustamente da chi era invidioso della sua grandezza. Ha chiuso l’anno scorso, Giovanni, che è nato nel 58. Fate voi i calcoli dell’età. Purtroppo un paio d’anni li ha persi per squalifica. Aveva fatto una carezza a un arbitro, che non gradì la dimostrazione d’affetto. Peccato, perché io continuo a sostenere che in Basilicata soltanto Franco Mancini è riuscito ad essergli superiore. Non potrò mai dimenticare il suo balzo sul rigore di Farinola, in casa del Tricarico, l’anno che il Tricarico salì. Quell’anno in casa loro vinsero tutte le partite. Tranne quella. Giovanni parò di tutto, pure quel rigore destinato all’angolino alla sua destra. Finì zero a zero, e ci vollero due ore prima che il pullman riuscisse ad uscire dal campo, sotto le pietre dei tricaricesi incazzati e carogne.
Mille e altri mille sarebbero gli episodi e i personaggi da raccontare. Ma vi annoierei oltremodo.

Una persona, però, di cui proprio non posso fare a meno di parlarvi.
Le trasferte del Grassano erano una via di mezzo tra una scampagnata ed un’impresa. Si partiva la mattina a mezzogiorno, appena finita la pastasciutta della domenica, con il sapore delle arance ancora infilato tra i denti. Fin quando un po’ di soldo accompagnò la società, i viaggi si fecero in pullman. Spesso si andava in undici contati, tra infortuni, cresime, battesimi e malattie improvvise. I più dritti si facevano ammonire la domenica prima, così si risparmiavano la sfacchinata. Qualcuno lo si doveva andare a recuperare direttamente a casa, strappandolo al letto o alla tavola.
I viaggi duravano un paio d’ore, quasi tutti di curve, fino ad arrivare in paesi sperduti e minuscoli, abbarbicati sulle montagne. Quasi sempre si perdeva. In trasferta ci si andava per onor di firma. Un doccia veloce, e poi via, di nuovo in pullman, altre due ore di strada e di curve. In sottofondo la voce di Ciotti o quella di Ameri, che ci riferivano di ciò che era successo al Milan l’Inter e la Juventus.
Quei viaggi parevano interminabili. Eppure era lì il divertimento, nelle chiacchiere del dopopartita, nella coglionella gli uni agli altri per le cazzate fatte in campo.
Lì si erse in tutta la propria statura il più grande tra i personaggi di quell’epopea, Michele Viscera per tutti, Miguel Visceras per me, e per chi come me ebbe la fortuna di ascoltarne i racconti. Miguel aveva vissuto alcuni anni a Pescara, secondo alcuni, dove aveva studiato da odontotecnico, giocando a pallone nel tempo libero. A questa storia io continuo a non credere. Mi piace pensare ancora alla storia che lui allora ci raccontava, del Miguel ex giocatore del Real Madrid, dove aveva raccolto fama e trionfi, adorato dalla folla come un dio pagano del pallone. Miguel ci raccontava dei giornalisti che lo rincorrevano, delle donne che impazzivano per lui, dei tifosi che lo amavano. Ci narrava immaginarie finali di coppacampioni, vinte con un suo gol allo scadere, come nella migliore tradizione del cinema calcistico, di sue reti fantasmagoriche, di prodezze sul campo mai viste.
Quei viaggi divenivano di colpo leggeri, brevissimi, divertenti, accesi da tutti i siparietti che al contorno di quel racconto si animavano. E quando arrivava il momento di scendere, era quasi un dispiacere tornare a casa e ad un mondo troppo reale.

 

                                                                                                                                      Nicola Bronzino