Storie di emigranti.

03.03.2015 20:13

                                     La prima volta che incontrai gli aborigeni

Appena arrivati in Australia, verso la fine di maggio del ’67, andammo ad abitare in una vecchia casa di legno che ci aveva trovato zio Peppino nella stessa strada dove abitava lui. Era una casa verde, a due piani. Al pian terreno vi abitava la padrona, un’anziana signora tedesca con la quale era difficilissimo comunicare; solo papà che aveva lavorato per alcuni anni in Germania riusciva a capire quello che diceva.
Una scalinata esterna serviva per accedere al piano di sopra e finiva su un’ampia terrazza davanti al nostro ingresso. Le stanze erano quasi vuote, mobili non ne avevamo, un vecchio tavolo lo prendemmo in prestito dallo zio. Dall’Italia, oltre ai pochi effetti personali avevamo portato solo dei materassi di lana sintetica che, distesi sul pavimento, facevano da letto. Per sedie adoperavamo degli sgabellini che papà aveva abilmente ricavati da alcuni pezzi di legno trovati dietro la casa.Il pavimento era ovviamente di legno e in quello delle camere vi erano delle larghe fessure dalle quali era chiaramente visibile il piano di sotto.
La terrazza, rivolta ad ovest, s’affacciava su un’ampia vallata che si stendeva fin verso la città, una grande estensione di terreni incolti con qualche rara casa visibile.
Intorno alla casa e nei terreni adiacenti l’erba era molto alta poiché la padrona, data la sua età, non era in grado di falciarla, e fu proprio qui che un pomeriggio, nell’ora in cui il sole sta per tramontare e riflette i suoi raggi d’una luce particolarmente luminosa e dorata che mia sorella mi fece notare, acquattati tra l’erba alta vicino alla siepe, due aborigeni fissi a guardare la nostra casa.
Le loro teste nere e ricciute erano ben visibili ed immobili. Non avremmo mai pensato che degli aborigeni ancora allo stato selvaggio si sarebbero spinti fin vicino alla nostra casa, anche se abitavamo prossimo alla campagna.
Veramente una nostra paesana, Teresa “La Grottolesa” che era venuta a trovarci prima che venissimo in Australia, ci aveva raccontato che dove abitava lei gli aborigeni erano soliti entrare nelle case a prendersi da mangiare e poi fuggivano. Facevano molta paura quei corpi scuri e nudi quando le si presentavano improvvisamente.
Anche noi avevamo molta paura ed avvisammo subito la mamma poiché papà non era ancora rientrato dal lavoro, e lei corse a raccontarlo a zio Peppino che fece telefonare alla polizia.
Non stettero molto ad arrivare, due giovani poliziotti che setacciarono tutta la zona attorno alla nostra strada, con le torce, poiché nel frattempo s’era fatto buio, ma degli aborigeni neanche l’ombra.
Bussarono a diverse porte per sapere chi aveva telefonato ma nessuno ne sapeva niente. Noi ci chiudemmo in casa e restammo in silenzio senza rispondere quando bussarono perché non sapevamo una parola d’inglese.
La mattina dopo non si vedeva più niente, forse erano scappati, e tornammo alla nostra tranquillità; ma prima di sera, con nostra grande sorpresa, alla stessa ora del giorno prima riapparvero i due aborigeni nello stesso punto. Ci chiudemmo di nuovo in casa, pieni di paura, come avevamo fatto la sera precedente, e là stemmo fino all’indomani.
Il giorno seguente vedemmo arrivare un uomo col trattore che si mise a tagliare l’erba, forse incaricato dalla padrona di casa a cui appartenevano anche i terreni adiacenti. Quando ebbe finito tutto sembrava più bello, finalmente si vedeva un po` di pulito attorno alla casa.
Lungo la siepe, ai confini del terreno, non aveva potuto pulire molto bene perché c’erano, tra i rovi, dei rottami di vecchie auto arrugginite. Una, in particolare, era di quelle antiche, coi fanali fuori dalla carrozzeria. Dei fanali c’era rimasto poco, come del resto della macchina. Si vedevano i gusci vuoti ed arrugginiti, ritti sul pezzo di lamiera contorta, che, all’ultimo chiarore del tramonto si accendevano d’una luce viva e fissavano da lontano la nostra casa.

 

Articolo di Nicola Mazzei, grassanese che vive in Australia dal 1967, pubblicato sulla Gazzetta del Mezzogiorno del 18 maggio 1998

(Foto di Marina Berardi)